Community manager: ascoltare e animare una comunità territoriale
Community manager: ascoltare e animare una comunità territoriale

Community manager: ascoltare e animare una comunità territoriale

Attivare le risorse locali per generare una visione condivisa di futuro: Silvia Di Passio racconta il lavoro di una community manager

Community manager. Nella nostra società 4.0, se cercate questo termine su un qualsiasi motore di ricerca probabilmente troverete definizioni simili: “figura professionale che gestisce una comunità virtuale” oppure “che gestisce la comunicazione di un’azienda sui social network”. Invece noi, quando usiamo questo termine, facciamo riferimento a una comunità incarnata, territorializzata, viva e analogica, e ai modi in cui la si può ascoltare e animare. Abbiamo incontrato Silvia Di Passio, community manager con anni di esperienza sul campo nelle Aree Interne sarde e non solo, per capire meglio di cosa si occupi questa figura.

Unire competenze e interessi per diventare community manager

Non esiste una risposta univoca alla domanda “Come si diventa community manager”, un po’ perché si tratta di un termine adottato solo di recente, un po’ perché esserlo richiede quella versatilità che un solo percorso formativo e professionale sfaccettato può dare. Nel caso di Silvia, originaria della provincia di Frosinone e trapiantata a Roma per l’università, gli studi in scienze politiche si affiancano alla passione per la fotografia, alla collaborazione con il GAL Versante Laziale del Parco Nazionale d’Abruzzo e a un forte interesse verso i processi sociali, che la porta ad esplorare il mondo dei centri autogestiti e dei collettivi. Dopo un’esperienza in Bolivia per scrivere la tesi, sviluppa quello che definisce un “rifiuto per la città” e, abbandonata la capitale, inizia a plasmare una traiettoria di vita personale. Sono anni di esplorazione in vari ambiti: crea un’associazione per l’inclusione sociale dei richiedenti asilo nelle aree interne, diventa facilitatrice di progetti Erasmus+, si specializza in questioni di genere e attivismo giovanile per lo sviluppo locale.

Le esperienze e competenze collezionate negli anni trovano la propria collocazione, come tessere di un puzzle che si ricompone, quando nel 2019 viene pubblicata una call della società cooperativa Sardarch, laboratorio di ricerca che studia le trasformazioni urbane e territoriali. La società cerca un “community manager” per il progetto SpopLab a Nughedu Santa Vittoria, piccolo comune sardo in provincia di Oristano. Leggere la vacancy è, per Silvia, come guardarsi allo specchio e riconoscersi.  “Quando ho letto la descrizione ho capito che era esattamente quello che facevo già, solo che non aveva ancora un nome”. Sardarch ricerca “laureati, ricercatori e professionisti nei settori dello sviluppo locale, della progettazione, dell’urbanistica e dell’animazione sociale” il cui ruolo sarà “l’animazione sociale e culturale del territorio e l’attivazione di risorse.” E la persona scelta è Silvia.

Il progetto Spop Lab: il community management in Sardegna

Il progetto Spop Lab è il primo progetto di ricerca-azione di community management in Italia e ha lo scopo di organizzare le risorse del paese, coinvolgendo i cittadini, valorizzando il potenziale di ogni soggetto e motivandolo all’impegno. Si tratta di un progetto residenziale, perché la community manager deve immergersi nelle dinamiche locali e mettersi in ascolto del territorio per guidarne lo sviluppo senza imporre un progetto dall’alto. Silvia si trova così catapultata nel cuore della Sardegna, in un paese di 400 abitanti, per sei mesi e mette a sistema quanto ha appreso nelle esperienze passate. Sa strutturare laboratori e animare il territorio grazie all’esperienza al GAL, sa lavorare con i gruppi in modo non formale in quanto facilitatrice di progetti Erasmus+, ha partecipato a workshop e seminari: parte da questi mattoncini per costruire un percorso di sviluppo collettivo ancora inesplorato. “Ho delineato la figura del community manager su alcune caratteristiche molto mie e non so quanti stiano utilizzando lo stesso approccio”, spiega Silvia. “Ognuno la declina come vuole, ci sono decine di persone che stanno lavorando in diversi contesti italiani senza una formazione specifica”. Ben venga l’autoformazione, ma a fare la differenza è l’esperienza sul campo e la giusta sensibilità.

L’arrivo di una community manager ha una forza dirompente nell’alterare gli equilibri di una comunità locale, guidando la costruzione di una visione collettiva di futuro. Lo sviluppo che promuove mette al centro le persone: è la comunità ad essere motore del cambiamento e portatrice di risorse e capacità. Si tratta allora di creare spazi capacitanti per attivare le competenze che già esistono sul territorio e generare nuove connessioni. “Il mio ruolo è creare un contatto tra l’esistente e ciò che è sommerso, provando a farlo riemergere”, spiega Silvia. Si lavora sulle dinamiche gruppali, ma anche sui singoli individui. “Cerco di far capire le potenzialità personali”, aggiunge. “Lavoro molto sulla persona, ci sono molte competenze di psicologia, educazione e sociologia ancora prima che di sviluppo e progettazione, che vengono dopo”. Perché se le persone si riconoscono come agenti portatori di risorse, e non più come passivi inquilini di un territorio, attivano la propria capacità di costruire e determinare il proprio futuro. Insieme.

L’importanza di parlare a tutti

Una parte delicata del lavoro di una community manager è la costruzione della fiducia nella propria figura. Completa sconosciuta, si insedia in un territorio magari ancorato alle proprie tradizioni e disabituato alla presenza dell’ “altro”. Bisogna allora imparare a dialogare con chi quel territorio lo abita da tempo, adottando un linguaggio alla portata di tutti anche quando si racconta il progetto. “Ci sono dei linguaggi di sviluppo locale che non riescono ad arrivare a tutti”, riconosce Silvia. “Vedo molti esperti che riescono a parlare solo con le persone più colte del paese, mentre gli altri restano indietro”. È l’opposto di quanto vuole un community manager, il cui sguardo abbraccia tutti gli abitanti. Per lavorare con le comunità occorre spogliarsi del linguaggio elitario delle aule universitarie, dei paper e dei manuali, e usare le parole del quotidiano, quelle che arrivano alle persone con più immediatezza.

Come lavora una community manager?

Quando Silvia parla del suo lavoro non si concentra tanto sull’obiettivo quanto piuttosto sul processo. “Io lavoro sul triangolo obiettivi-persone-processo”, spiega. “Se questi tre elementi non sono in sintonia non può funzionare nulla”. Ed è per questo che fissare un obiettivo sul lungo periodo è importante, ma bisogna prestare attenzione soprattutto a “quello che succede nel frattempo, ovvero le relazioni e la creazione di nuove dinamiche”.

Il rodato metodo Di Passio prevede un iniziale ascolto di quello che il comune committente vuole (dalla risignificazione degli spazi pubblici alla creazione di una cooperativa di comunità) e una successiva verifica se ciò corrisponda a potenzialità, necessità e desideri del contesto. “Si inizia una fase di ricerca fatta di interviste semi strutturate e osservazioni partecipanti, tutte metodologie che prendo dalla sociologia e dalla formazione informale”, racconta Silvia. Ma ben vengano anche “incontri informali, chiacchiere e birrette”, per avviare un dialogo sincero con gli abitanti del territorio. Si prosegue poi con laboratori, focus group e incontri strutturati per dirigersi verso gli obiettivi stabiliti con la più ampia partecipazione possibile.

L’attivazione delle risorse esistenti attraverso il costante lavoro con gli abitanti è solo un aspetto del lavoro di una community manager, che al contempo si interfaccia con le Amministrazioni Pubbliche per progettare nuove politiche innovative. La pianificazione strategica non si ferma al livello comunale: occorre coinvolgere i vari enti territoriali, come le Unioni di Comuni e le Unioni Montane, per favorirne il dialogo, lo scambio reciproco e la creazione di sinergie.

E dopo il progetto?

Nei mesi residenziali una community manager lavora anche sul capacity building della comunità. “Il mio obiettivo è creare gruppi di giovani volontari che mi affianchino”, spiega Silvia, mettendo in rilievo l’importanza dell’attivazione giovanile. “Fin dal primo momento voglio trasmettere competenze, perché la mia figura deve scomparire il prima possibile per lasciare spazio agli attivatori del luogo”. È un approccio generativo per il territorio che si ritroverà a gestire da solo il proprio percorso: con gli strumenti giusti in mano, gli abitanti saranno in grado di proseguire il lavoro avviato senza più il bisogno di una manager che li segua passo a passo. “Quelli che mettiamo noi sono dei semi: non vogliamo chiudere un processo, ma attivare la comunità”.

I primi risultati di questi progetti sperimentali fanno ben sperare. Al termine di ogni lavoro si chiede ai residenti cosa, secondo loro, sia cambiato dal punto di vista economico, culturale e sociale.  “Non posso dire che abbiamo combattuto lo spopolamento o che il paese ha più entrate economiche”, riconosce giustamente Silvia, perché lo spopolamento è una dinamica che non si arresta in pochi mesi. Eppure è significativo leggere, nei questionari conclusivi, commenti come “quest’esperienza ci ha fatto conoscere meglio noi stessi e le nostre potenzialità”, o ancora “quest’esperienza ci ha dimostrato che abbiamo gli strumenti per crescere economicamente, che dipende solo da noi, dai nostri prodotti e da come collaboriamo”. Sono segnali importanti di un cambiamento dal basso. Inoltre, al termine di questi percorsi anche le amministrazioni pubbliche hanno acquisito maggiori competenze di pianificazionee coprogettazione, nonché una nuova visione di sviluppo incentrata sulla partecipazione attiva degli abitanti.

Gli altri progetti seguiti da Silvia Di Passio

Dopo l’esperienza a Nughedu Santa Vittoria, vari comuni limitrofi si sono rivolti a Sardarch per replicare l’esperienza. E così Silvia è stata community manager anche per i progetti ARCO – Giovani community managers per l’attivazione delle comunità locali, Framentu (nel comune di Ortueri), Officine Comunitarie (a Belvì), Unione dei Felici (per l’Unione dei Comuni dei Fenici), Ze Noa (a Villanova Monteleone), Ollolai.Capitale e del Festival Abitare Connessioni. Terminata l’esperienza in Sardegna, ora collabora con la Rete Toscana delle Cooperative di Comunità Borghi Futuri per pianificare una strategia di gestione delle risorse naturali e con PIAM Onlus, associazione astigiana che si occupa dell’accoglienza di persone migranti nelle aree interne. A breve lavorerà anche sul tema delle comunità energetiche: ogni strumento a disposizione per lo sviluppo locale nelle sue mani diventa leva generativa.

Nel frattempo, Silvia ha avviato un dialogo con i sempre più numerosi professionisti che si occupano di community management: insieme, mirano a un loro futuro coinvolgimento nella definizione delle politiche pubbliche per le aree marginali. La conoscenza delle dinamiche locali, acquisite in anni di esperienza sul campo, sarebbe fondamentale per orientare correttamente la ripartizione  delle risorse pubbliche e gli investimenti.

Verso l’istituzionalizzazione del community management

Per fare ciò, tuttavia, occorre istituzionalizzare la figura del community manager, riconoscendone il ruolo chiave nella promozione di una cultura collaborativa nelle Aree Interne. È una battaglia cara a Silvia, che oggi si occupa di formazione di giovani community manager che lavorano in diverse aree interne e che ha partecipato alla stesura delle 15 Proposte per il futuro delle Aree Interne di Officina Giovani Aree Interne. Al primo punto del documento si legge: “Riconoscimento dei ruoli professionali legati alla partecipazione, con funzioni di progettazione partecipata, attivazione e coinvolgimento di comunità, facilitazione e gestione di processi anche conflittuali, community management (…), attraverso, ad esempio, albi professionali”.

Istituzionalizzare questa figura significherebbe riconoscere l’importanza del coinvolgimento dal basso e della cocreazione nelle politiche di sviluppo locale, perché sono i territori a saper meglio di chiunque altro di cosa hanno bisogno. Rendere le Aree Interne attive e protagoniste.

Noi di RIFAI non possiamo che sposare questa visione.